Proposte per un piano nazionale in difesa dei diritti e del valore del lavoro salariato nell’agroalimentare

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L.I.L.C.A.

Lega Italiana Lavoratori del Campo e dell’Agroalimentare
Un progetto aperto dell’Alleanza Sociale per la Sovranità Alimentare

7 giugno 2021

PROPOSTA DI PIANO NAZIONALE IN MATERIA DI CONTRASTO ALLO SFRUTTAMENTO DEL LAVORO IN AGRICOLTURA E NUOVI INTERVENTI IN MATERIA DI RILANCIO DEI DIRITTI, DELL’ASSISTENZA E DELLA PREVIDENZA NEL COMPARTO BRACCIANTILE.

Premessa.

L’emergenza sanitaria ha maggiormente evidenziato la scarsa attenzione non solo del Governo Conte, prima, e di quello Draghi dopo, ma anche dell’intera classe politica nei confronti del comparto bracciantile, ossia di quei dipendenti delle aziende agroalimentari che, lungo le fasi critiche della pandemia, hanno consentito che il cibo arrivasse nelle nostre tavole.

Lo scarso interesse che registriamo verso il comparto, tuttavia, non scaturisce dal fatto che il Governo Conte ha riconosciuto ai lavoratori agricoli solo 2 miserevoli bonus una tantum per un totale di 1100 euro, né dal riconoscimento da parte del Governo Draghi di un ristoro di 800 euro una tantum, per rimpinguare le giornate di lavoro involontariamente perdute.

Il disinteresse del Governo e della classe politica derivano dal non voler affrontare seriamente, ma solo superficialmente ( vedi il piano di contrasto al lavoro nero, ecc) i problemi strutturali della categoria. In funzione di tale atteggiamento, si preferisce fornire precisi assist alla GDO perchè la categoria venga sempre piu’ sfruttata e relegata ai margini della filiera agroalimentare.

Vi ricordate la superficialità con la quale “certa politica e certo sindacato” hanno rivendicato nei confronti del Governo Conte l’autorizzazione ad un ulteriore ricorso all’uso dei woucher poichè gli imprenditori non riuscivano a raccogliere i prodotti? Tutto ciò si registrava nonostante la media delle giornate lavorate dai braccianti agricoli stagionali, regolarmente iscritti negli elenchi anagrafici, è di 80 giorni l’anno e potrebbero lavorare almeno ulteriori 100 giorni. Ciò dimostra che la grande distribuzione, che con la pandemia ha triplicato il fatturato, in verità non cercava dipendenti esperti per la raccolta dei prodotti, lavoratori da regolarizzare e pagare secondo i dettami del CCNL, ma schiavi disperati da sfruttare come fa, prevalentemente, con i migranti.

Il disinteresse e la superficialità del Governo e della classe politica nei confronti del comparto bracciantile si manifesta, ancora e sopratutto, con l’incapacità di sostenere il nostro agroalimentare nell’ambito della nuova PAC, all’interno della quale è necessaria una radicale inversione di rotta. Il risultato di questa scarsa attenzione e determinazione, si concretizza nell’aver consentito che venisse approvata una PAC che risulta essere fotocopia della precedente, che non contiene nessuna premialità specifica per quelle aziende agricole che producono cibo sano attraverso l’utilizzo di manodopera agricola impiegata secondo i dettami del CCNL.

Il nostro compito, visto il manifesto disinteresse del Governo e della classe politica verso il comparto bracciantile e l’agroalimentare, è quello di coinvolgere quante piu’ soggettività possibili, a partire da quelle che rappresentano i lavoratori agricoli, a quelle che rappresentano le associazioni alternative delle piccole e medie imprese agricole, alle associazioni dei consumatori per “sostenere ” nei confronti del “palazzo” una piattaforma condivisa capace di rilanciare il settore bracciantile sia dal punto di vista dei diritti negati ma anche e sopratutto dal punto di vista della necessità di un agroalimentare che produce cibo sano ed etico alla luce anche del cambiamento che si osserva da decenni in questo settore e che sempre più vede i migranti quali lavoratori che sostituiscono in alcune aree e per alcuni lavori i braccianti locali italiani.

Fotografia dei lavoratori agricoli in Italia.

I lavoratori iscritti negli elenchi anagrafici dei braccianti agricoli sono circa 875 mila (3,8 % dell’occupazione totale), di cui il 14%-15% sono immigrati di provenienza extracomunitaria e dell’Europa dell’Est. Di questi, l’11,5% sono di nazionalità marocchina, tunisina, indiana, albanese, senegalese regolarmente residenti in Italia mentre il resto sono cittadini europei di nazionalità polacca, rumena e bulgara.

Il 73% sono uomini mentre il 27% sono donne. La tipologia contrattuale applicata ai dipendenti agricoli è il contratto a tempo determinato per il 90% degli occupati.

La media delle giornate lavorate annualmente, in base agli elenchi anagrafici, è pari a 75-80 giorni.

I braccianti agricoli che negli ultimi 5 anni non sono riusciti a raggiungere le 51 giornate lavorative, ossia, il tetto minimo che gli consente di accedere al diritto all’indennità di disoccupazione agricola, sono 320 mila circa.

Le regioni con maggiore presenta di lavoratori agricoli sono: la Puglia con il circa il 17%; la Sicilia con circa il 14,5%; la Calabria con circa il 10%; l’Emilia Romagna con circa il 9,5%; la Campania con circa il 6,5%.

In Italia si stimano inoltre, circa 165 mila lavoratori agricoli in nero, quindi completamente irregolari.

Il tasso di lavoro nero in agricoltura è il più alto tra tutti i settori economici poiché si attesta al 24,2% nel 2018.

Secondo i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro su oltre 7 mila aziende ispezionate nel 2018, è stato accertato un tasso di irregolarità pari a circa 55%, e i braccianti interessati dalle violazioni di legge sono stati oltre 5 mila.

Nello stesso anno le attività di contrasto all’intermediazione illecita e allo sfruttamento lavorativo hanno interessato 1.474 lavoratori di cui il 46% è risultato praticare completamente “lavoro nero” mentre il rimanente 54% praticava “lavoro grigio”.

L’azione di contrasto alle cosiddette “coop supermarket di giornate” inoltre, ha fatto emergere l’occupazione irregolare per 28 mila persone. In questi casi, tuttavia, poiché le ispezioni hanno tenuto conto solo dell’esagerato numero di assunzioni rispetto ad estensione, tipologia di coltivazione e fatturato aziendale, è stato decretato che i lavoratori fossero tutti fittizi, compresi i braccianti storici le cui prestazioni rientrano nei criteri considerati. Trattasi di giustizia sommaria.

L’economia sommersa in agricoltura ha raggiunto il 17% circa del valore aggiunto, in un settore che registra un fatturato di circa 60 miliardi di euro annui . I braccianti rappresentano, pertanto, un segmento importante dell’economia di cui l’Italia non può fare a meno.

Il superamento delle criticità e quindi, il rilancio del comparto bracciantile, è indispensabile nonostante ciò è fortemente legato alla necessità di una inversione di tendenza rispetto il modello di politiche su cui poggia il nostro agroalimentare.

Il quadro è più allarmante se si considerano i braccianti immigrati, spesso costretti a vivere in accampamenti informali, la loro condizione di irregolarità lavorativa va di pari passi con l’emanazione delle diversi leggi dello stato che hanno trasformato in modo forzato i richiedenti asilo, fortemente precari, in veri e propri schiavi. Negli anni si assiste sempre più ad una condizione di maggiore precarietà che va di pari passo con le leggi sicurezza emanate dai diversi governi. A questo si deve aggiungere la mancanza organizzaione del lavoro salariale all’interno del quale trova ampio spazio la filiera del malaffare di cui quella del caporalato è solo la punta dell’iceberg.

Necessità oggettiva di invertire la tendenza rispetto al modello su cui poggia il nostro agroalimentare.

La nuova politica agricola comunitaria (PAC) ripropone in Europa e in Italia, il modello produttivista-industrialista fondato sull’agroindustria, sulle multinazionali e sull’agrobusiness anziché, come si era a lungo paventato prima del voto in Commissione Europea, un modello che andasse nella direzione del green deal, della valorizzazione delle biodiversità, delle piccole e medie aziende, delle peculiarità dell’agricoltura mediterranea e del KM zero.

Questo modello, che ostacola le produzioni di qualità e quindi “il cibo sano” , considera il lavoro dei braccianti “ accessorio” e l’ambiente, marginale. E’ il modello che ha premiato l’Olanda per la produzione del pomodoro anziché uno qualsiasi dei paesi del mediterraneo.

Se è vero come è vero che l’Europa investirà per la nuova PAC un 1/3 del proprio bilancio, è altrettanto vero che la stragrande maggioranza di queste risorse finiranno nelle tasche dell’agricoltura produttivista a discapito di quella mediterranea con la ovvia conseguenza che i redditi degli agricoltori italiani saranno inferiori fino al 50% rispetto a quelli del centro e del nord Europa. Questi agricoltori, i cui redditi continueranno ad essere bassi e indeguati, come faranno a produrre cibo di qualità e ad impiegare braccianti agricoli a cui vengono rispettate la condizioni dei contratti collettivi?

Ciò significa che vista la debolezza della classe politica, dei sindacati (delle imprese agricole come dei lavoratori), bisogna puntare ad un alleanza strategica che rivendichi un agroalimentare che punti a produrre “cibo sano” da vendere a prezzi dignitosi attraverso l’impiego di braccianti a cui vengono rispettati i contratti.

In sintesi, un alleanza per la sovranità alimentare tra associazioni di categoria, sindacati dei lavoratori e associazioni dei consumatori alternativi.

Le forme e gli strumenti dello sfruttamento lavorativo in agricoltura.

La stragrande maggioranza dello sfruttamento lavorativo, è da ricercare nelle medie e grandi aziende agricole, ed è costituito da forme illegali di intermediazione finalizzata all’assunzione (caporalato), di reclutamento (datore di lavoro che per le assunzioni si rivolge al caporale) e organizzazione della manodopera (sfruttamento sul salario,l’orario, il trasporto, la sicurezza, ecc), ma anche dall’assenza di norme contrattuali, uniformi in tutta Italia, sul costo del lavoro e di strumenti pubblici capaci di ridurre i danni.

La recente norma in materia di contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro in agricoltura, la lex 199/16, che avrebbe dovuto affrontare e risolvere i problemi dei braccianti all’interno della filiera, si è rivelata sostanzialmente insufficiente poiché è monca di una serie di strumenti atti a renderla efficace ed efficiente.

Non è con l’inasprimento delle pene, infatti, così come emerge anche dagli altri settori in cui si è utilizzata questa strategia, che risolve il problema dello sfruttamento. L’introduzione della reclusione (da 1 a 6 anni ) per chi recluta manodopera per destinarla a terzi in condizioni di sfruttamento e anche per chi la utilizza, l’assume o la impiega sottoponendola a condizioni sfruttamento approfittando del loro stato di bisogno, rappresenta solo un deterrente che non assolve l’obiettivo di sconfiggere il caporalato.

Lo strumento dello sfruttamento: Il caporalato.

Nella maggior parte dei casi il caporale rappresenta l’unico punto di riferimento per i braccianti, sia stranieri che residenti nei comuni dove non sono presenti i “ cosiddetti magazzini” per individuare il datore di lavoro. La figura del caporale diventa pertanto, determinante per il reclutamento della manodopera.

Relativamente alla manodopera italiana, il caporale si occupa e lucra,in linea di massima, sulla paga e sul trasporto.

Per la manodopera straniera invece, il caporale si occupa e lucra su tutto: dalla paga al trasporto, dal vitto all’alloggio. Per gli stranieri il caporale è spesso e volentieri un immigrato che vive da più tempo nel territorio e che non ha rapporti diretti col datore di lavoro o con l’impresa utilizzatrice, ma con il caporale italiano. Quindi gli stranieri subirebbero una specie di intermediazione di secondo livello che si rapporterebbe con quella di primo livello rappresentata dal caporale nostrano. Tuttavia, esistono casi in cui il caporale straniero ha rapporti diretti con l’utilizzatore finale.

I caporali stranieri, hanno un potere di ricatto enorme nei confronti dei braccianti stranieri poichè gestendogli tutto, controllano ed amministrano la loro stessa vita. Sono una specie di padroni dei braccianti a differenza dei caporali italiani che rappresentano gli intermediari del datore di lavoro, o come si sul dire in gergo, del padrone.

Fotografia delle forme di sfruttamento.

Il Lavoro nero.

Come abbiamo già detto, in Italia si stimano in oltre 156 mila i braccianti agricoli assunti, in parola o tramite caporale, per lavorare in nero, ossia in maniera completamente irregolare, nelle campagne italiane.

La maggior parte di questi lavoratori agricoli sono migranti.

Vengono assunti in nero, poichè questo meccanismo consente al datore di lavoro di non versare nè contributi INPS, nè INAIL e sopratutto, di pagare un salario inferiore concordato in piazza assieme ad un ottocentesco numero di ore lavorative in barba a quanto disposto dal CCNL.

Con questa tipologia di sfruttamento il datore di lavoro commette almeno 3 gravi violazioni di legge:

A)quelle sulle assunzioni. La mancata comunicazione delle assunzioni all’INPS, all’INAIL determina di fatto, il mancato versamento dei contributi previdenziali (INPS) e contro gli infortuni sul lavoro (INAIL);

B) quelle di contrasto allo sfruttamento del lavoro. I bracciante, essendo in uno stato di bisogno, vengono costretti ( pena la sostituzione di essi con altri disperati) a lavorare in nero (senza assunzione legale), molte più ore rispetto quelle previste dai contratti collettivi, senza che ricorrano le elementari condizioni di sicurezza,ecc;

C) quelle contro il contratto collettivo di lavoro che prevede, tra gli altri, retribuzioni a seconda dei livelli e delle mansioni. Per fare un un solo esempio, relativamente alla provincia di Catania, un raccoglitore di agrumi medio dovrebbe percepire 67 euro giornaliere. Spesso ne pattuisce con il datore di lavoro o col caporale Euro 50/52.

Il Lavoro grigio.

Questa grave piaga, vede nella forma, le aziende che ne fanno uso, essere in regola da tutti i punti di vista. Addirittura, la cronaca ci racconta che alcune di queste, prima di essere incriminate per questa tipologia di reato, hanno ricevuto premi onorifici in pompa magna.

Il 60% – 70% delle imprese agricole prevalentemente medio/grandi per ridurre il costo del lavoro versa infatti, regolarmente, i contributi previdenziali; paga regolarmente le retribuzioni contrattuali ed effettua la tracciabilità prevista per i salari, facendosi però restituire una significativa quota del salario ( in base a quanto pattuito in piazza) in contanti.

Altre aziende agricole mettono in pratica meccanismi difficili da accertare qualora non vengano denunciati dallo stesso lavoratore che li subisce.

Ecco l’esempio piu’ diffuso: nel momento dell’assunzione i datori di lavoro comunicano preventivamente all’INPS che il lavoratore TIZIO verrà assunto per un numero di giornate superiori per poi registrarne, effettivamente, nelle buste paghe, un numero nettamente inferiore. Alcuni casi: si comunicano preventivamente 151 giorni lavorativi, per poi registrarne, effettivamente, 101 giornate. Oppure, se ne comunicano 101 e poi se ne registrano di meno.

Da gennaio 2020,nonostante la norma sia divenuta piu’ restrittiva, e le aziende agricole debbano comunicare il numero delle giornate lavorative mese per mese, il trucco delle aziende è diventato quello di comunicare anziché 24 giornate un numero nettamente inferiore.

Il lavoro a cottimo!

Spesso e volentieri, sopratutto per alcune campagne di raccolta ( tipo olive,l pomodoro,arance,ecc), i braccianti agricoli consci che non verranno assunti regolarmente, e che quindi non avranno applicati i CCNL, preferiscono pattuire in piazza con i datori di lavoro il cosiddetto lavoro a cottimo. Attraverso il cottimo stabiliscono il prezzo di una cassetta piena di prodotto. Piu’ cassette di prodotto raccoglieranno nel corso dell’infinita giornata di lavoro, piu’ guadagneranno.

Il lavoro tramite waucher.

Rappresentano uno strumento in più in mano ai datori di lavoro che intendono eludere il costo del lavoro in agricoltura, fermo restando che in questo settore, il costo del lavoro medesimo, è il piu’ basso tra tutti gli altri settori. Nel 2020, lungo la pandemia, alcune forze politiche, i sindacati datoriali e l’UGL , con la falsa scusa della carenza di manodopera agricola per le grandi campagne di raccolta, hanno rivendicato una estensione massiccia di questo strumento “oggettivamente contro i diritti dei lavoratori”. In verità cercavano schiavi anziché braccianti poiché, se avessero voluto, avrebbero trovato tutti i braccianti che servivano, come è palesemente dimostrato dalla media di giornate lavorative nazionali dei braccianti regolari.

Possiamo inoltre, affermare che nei casi in cui vengono utilizzati i waucher, anziché creare lavoro aggiuntivo buono, si crea lavoro sostitutivo e senza diritti. Lungo le campagne di raccolta il loro utilizzo consente ancora, ai datori di lavoro di nascondere o eludere manodopera irregolare.

I supermarket delle giornate lavorative.

Nell’ultimo ventennio si è diffuso un sistema ingegnoso di elusione ed evasione contributiva praticato anche dai datori di lavoro più conosciuti. Per evitare di versare i contributi ai braccianti, hanno affidato le loro assunzioni, nonostante prestino attività lavorativa per loro, ad altre aziende o cooperative fittizie che, dopo alcuni anni, scompaiono come neve al sole, senza aver versato nè contributi previdenziali, nè quanto dovuto all’INAIL.

Inoltre, attraverso questo sistema, vengono assunti, pure braccianti fantasma, dai quali, i datori di lavoro medesimi, riceveranno delle somme che” sulla carta” dovrebbero servire loro per pagare i contributi.

In genere, la magistratura, a causa dei lunghi ritardi con cui gli ispettori dell’INPS o dell’UTL effettuano i dovuti controlli, solo dopo anni scopre questa tipologia di truffa tramite la quale vengono erogate ai braccianti fasulli prestazioni assistenziali (indennità di disoccupazione, contributi, malattia ecc) non dovute, a discapito dei sacrosanti diritti dei braccianti storici veri che si ritroveranno con il taglio dei contributi assistenziali e previdenziali.

Negli ultimi 2/3 anni le visite ispettive presso le aziende, che poi risulteranno fasulle, sono piu’ frequenti ma difficilmente avvengono nel corso di un rapporto di lavoro.

Si sono registrati tanti casi di aziende senza scrupoli che nascono solo con lo scopo di vendere giornate lavorative.

Quando interviene la magistratura, tuttavia, fa di tutta l’erba un fascio, ritenendo i lavoratori tutti fasulli, poiché accerta che, tra l’estensione aziendale ed il numero dei braccianti dichiarati, c’è palese incongruenza. Paradossalmente, vengono messi sullo stesso piano sia i braccianti storici che i braccianti falsi.

Chi tutela di diritti dei braccianti storici se i controlli ispettivi non vengono effettuati in corso d’opera?

LA NOSTRA PROPOSTA COMPLESSIVA PER RILANCIARE IL SETTORE.

1) Il caporalato si supera sostituendo la funzione del caporale con quella di un soggetto pubblico che convogli domanda ed offerta di lavoro e con una strategia generale che assista il sistema delle imprese con servizi adeguati.

Bisogna creare presso i centri per l’impiego degli appositi sportelli, aperti dalle ore pomeridiane fino a sera, capaci di divenire il punto d’incontro pubblico tra la domanda e l’offerta di lavoro. Nei comuni dove non esistono centri per l’impiego, per questa specifica funzione, i comuni medesimi, dovrebbero mettere a disposizioni delle apposite sedi a cui sia i datori di lavoro, per la ricerca di manodopera, che i braccianti per l’offerta, devono fare riferimento.

La presenza di moderni ed intelligenti uffici di collocamento oltre a sostituire il il ruolo del caporale, contribuirebbero a superare il problema fondamentale della “libertà” del lavoratore nel luogo di lavoro.

Il collocamento pubblico in sostituzione del caporale, renderebbe i braccianti liberi di rivendicare quanto gli è dovuto senza cedere al ricatto del lavoro grigio poiché consentirebbe ai braccianti medesimi, di superare la paura che i caporali facciano cartello e non gli permettano di trovare piu’ lavoro.

In questa direzione di “libertà”, sarebbe opportuno che le aziende agricole che assumono da 50 dipendenti in su, ne collochino il 50%, attraverso le indicazioni provenienti dal centro per l’impiego per impedire la disparità di opportunità di lavoro.

Sono da respingere tutti i tentativi che in maniera diretta o indiretta mirano a forme di introduzione di collocamento privato poiché mortificherebbero la libertà del lavoratore nel luogo di lavoro.

2) Il sindacato rivendica i diritti dei lavoratori contestualmente al cibo sano ed etico.

Vertenza assieme alle associazioni degli agricoltori e dei consumatori che aderiscono all’alleanza per la sovranità alimentare per rivendicare la produzione del “cibo sano ed etico”. Solo la produzione di il cibo sano può consentire all’agricoltore di guadagnare un prezzo ragionevole e di conseguenza, di avere in tasca le risorse per pagare senza affanno e in base al CCNL i braccianti che per suo conto hanno prestato attività lavorativa.

3) Introduzione della tabella salariare minima nei CCNL per tutta Italia e di strumenti in grado di garantirne il rispetto.

Inserimento di una norma che preveda l’introduzione e l’estensione, nel CCNL dei lavoratori agricoli, di una tabella salariare di base uniforme per tutta Italia in maniera da impedire l’attuale diversificazione salariale, regione per regione e provincia per provincia. Il costo del lavoro orario non può andare al di sotto delle 10 euro l’ora nette.

Inoltre è necessaria, introduzione di meccanismi atti a garantire il rispetto del CCNL medesimo, a partire dal rispetto del salario, dell’orario di lavoro, degli straordinari, della trasferta, ecc.

A tal uopo sono necessari: l’introduzione di norme che prevedano, contestualmente, l’utilizzo di apposite “app” finalizzate alla geolocalizzazione e collegate al server dell’ispettorato del lavoro o dell’INPS, a cui i lavoratori possano inviare la propria posizione e quindi, il luogo in cui stanno svolgendo la propria prestazione lavorativa rimanendo nell’anonimato; e un numero verde anonimo a cui i braccianti possono denunciare qualsiasi tipo di sfruttamento e violazione contrattuale.

Non è piu’ procrastinabile il rinvio dell’aumento degli ispettori del lavoro e dell’INPS in maniera che possano effettuare i controlli lungo il rapporto di lavoro. I controlli ispettivi, in ogni caso, devono monitorare il territorio ed intervenire sulla base di una strategia sinergica tra INPS, ispettorato del lavoro, guardia di finanza, questura e segnalazioni dei soggetti denuncianti.

L’utilizzo di specifici droni può coadiuvare ed integrare l’attività ispettiva.

4) Norma per superare la perdita involontaria del lavoro sia dal punto di vista assistenziale che previdenziale.

In questi ultimi anni migliaia di braccianti stagionali storici che per lunghi periodi della loro carriera lavorativa riuscivano a raggiungere, sistematicamente, il massimo delle giornate di lavoro consentite dalla legge, oggi, spesso e volentieri, non riescono a lavorare nemmeno il numero di giornate che gli permettono di beneficiare delle garanzie minime, sia a livello previdenziale che assistenziale. E’ sufficiente prendere a campione dagli elenchi anagrafici alcuni nominativi a caso per rendersi conto di come, questo grave stato di cose si registra, sopratutto, a partire dal 2008.

Questa grave situazione si è venuta a determinate poichè lo Stato non tutela piu’ i braccianti che perdono involontariamente un numero significativo di giornate di lavoro a causa del verificarsi nei territori di imprevedibili calamità naturali quali: gelate, grandinate, siccità, piogge persistenti, ecc.

Lo Stato deve farsi carico di introdurre una norma che sia in grado di farsi carico, qualora, si registrino danni alle coltivazioni per ragioni dovute ad avversità meteorologiche, accertate con decreto ministeriale, di “ridurre i danni a carico dei braccianti ” poiché questi saranno costretti a non andare a lavorare non per capriccio, ma a causa di impedimento involontario.

Obiettivo centrale di detta norma, deve essere quello di modificare ed integrare la riforma del lavoro in agricoltura del 2007, ‘introducendo un dispositivo che preveda, in caso di calamità varie, accertate attraverso gli organismi competenti (ispettorati,condotte agrarie, decreto della giunta regionale, ecc), di “riconfermare le giornate lavorative che il bracciante agricolo ha lavorato nell’anno precedente l’evento calamitoso”. Maturano, tuttavia, diritto ad accedere al beneficio, solo i braccianti che risulteranno essere in possesso, nel corso dell’anno dell’evento calamitoso, di minimo 25 giornate lavorative.

Ai fini previdenziali i contributi scaturenti dalla cosiddetta “riconferma delle giornate”, vanno riconosciuti ai fini delle pensioni di anzianità e finanziati dal fondo di solidarietà già trattenuto dall’indennità di disoccupazione agricola .

5) La previdenza per un lavoro “semi-usurante”

Solo chi non ha mai messo piede in campagna nella stagione della raccolta delle arance o di qualsiasi altro

prodotto non puo’ rendersi conto di come un bracciante non possa lavorare fino ad età avanzata senza rischiare di subire acciacchi di qualsiasi tipo. Chiunque di loro, all’avvicinarsi dei 60 anni, non può reggere senza subire contraccolpi fisici, mentre carica e trasporta sulle spalle, per centinaia di metri, fino a raggiungere il mezzo di trasporto, 2 casse alla volta, di 22 kg cadauna e per giunta, mentre piove.

E i braccianti che lavorano in estate sotto le tende delle serre?

Lo Stato deve farsi carico del problema dell’integrità fisica del lavoratore e prevedere per la categoria il ritorno ad una noma previdenziale già conosciuta in passato dal nostro ordinamento legislativo. Si deve andare in pensione al raggiungimento di 40 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica, oppure, con 35 anni di contributi al raggiungimento dei 57 anni di età.

IN CONCLUSIONE

Ricollocare i diritti del lavoro al centro di una strategia di rilancio dell’agricoltura nazionale e mediterranea è, dunque, un obiettivo strategico che proponiamo alle istituzioni ed alla politica per invertire la tendenza che fin qui ha favorito il primato del mercato e della sua finanziarizzazione.

Il nostro agroalimentare nei trenta anni alle nostre spalle esce profondamente in crisi per l’impatto con la globalizzazione dei mercati e ci mostra un quadro per cui sul lavoro si sono scaricate tutte le distorsioni sociali di un modello insostenibile.

La compressione dei salari e dei diritti è andata di pari passo con la riduzione dei redditi per le imprese agricole medie e piccole. Mentre il valore aggiunto che si produce nelle filiere agroalimentari ha consentito alla GdO di accumulare grandi risorse, i produttori hanno perso potere economico e sociale.

Se trenta anni fa il valore aggiunto che si produceva negli scambi veniva distribuito in maniera “equitativa” (all’incirca il 30% agli agricoltori, il 30% ai trasformatori ed alla logistica, la rimanente parte alla distribuzione), oggi oltre i due terzi sono drenati dalla GdO mentre tutti gli altri attori dividono meno di un terzo.

Il passaggio al modello dell’agroalimentare italiano si è costruito su un grande “furto” di ricchezza (economica ma anche ambientale) mentre l’Italia si trasformava da grande Paese del lavoro agricolo, della terra e nel mare a efficiente piattaforma commerciale governata dai veri padroni del mercato: la speculazione finanziaria.

Il nostro Made in Italy si è convertito in un brand governato dai grandi marchi speculativi; nel cibo distribuito entrano sempre meno le materie prime prodotte in Italia se non alla condizione di avere un prezzo “livellato al più basso possibile sul mercato internazionale”. Come dire: vantaggi enormi per chi gestisce le filiere commerciali e costi scaricati in basso sull’ambiente, il territorio, i lavoratori, le imprese produttive.

Questo modello, peraltro, sta venendo alla corda mostrando tutti i limiti anche dal punto di vista degli interessi generali e della sua tenuta. Se produrre la pasta in Italia con il grano estero invece che con quello italiano ha offerto agli industriali grandi opportunità, ora che il modello è diventato globale e il mercato è sempre più integrato, i nostri “pastai” stanno conoscendo l’aggressività del sistema agroindustriale turco. Come dire: se il modello è questo e si fonda sul pagare la materia prima meno possibile (dunque il lavoro) per vendere le merci ovunque sia più conveniente, allora il “possesso” di marchi svuotati di qualsiasi relazione di territorio è ben poca cosa.

Ripartire dal Lavoro, dunque, non è questione tecnica ma una grande sfida che riguarda tutto il Paese chiamato a decidere se le nostre aree rurali dovranno ridursi ad essere territori desertificati dagli insediamenti umani e dal lavoro o, al contrario, spazi per comunità attive con uomini e donne al lavoro nei campi gratificati nel reddito e per le condizioni di vita.

Con queste prime proposte intendiamo riaprire una discussione ormai ferma da troppo tempo.

L’Alleanza Sociale per la Sovranità Alimentare, con il progetto della LILCA, persegue l’obiettivo di elaborare proposte e azioni concrete a favore del lavoro salariato come prima condizione per ripensare tutto il nostro agroalimentare chiamato a recuperare la sua vocazione di relazione con i territori.

Riconquistare i diritti vuol dire recuperare significato e senso; per questo ci poniamo e poniamo le domande: quale lavoro? Per quale agricoltura? Per quale cibo e quale territorio?

Da “contadini e braccianti” non solo dovremo difendere il salario e i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici ma, anche, partecipare di un progetto che recuperi parte del valore sottratto dalla finanza e dalla speculazione commerciale nei decenni scorsi.

Se un pomodoro è pagato dall’industria 9,5 centesimi al campo, come stupirci del caporalato e dell’illegalità? Può la GdO che vende le passate fatte con il sudore dello sfruttamento non sapere? Può non essere chiamata a rispondere?

Il PIANO NAZIONALE DI CONTRASTO ALLO SFRUTTAMENTO DEL LAVORO che invochiamo deve segnare un punto di svolta e un’occasione per ripensare tutto il nostro agroalimentare, per questo come Alleanza Sociale per la Sovranità Alimentare stiamo lavorando a promuovere il Forum per la Nuova Riforma Agraria ed Agroecologica.

Alla sua base poniamo le proposte di difesa del lavoro, insieme a quelle dell’ambiente e dei beni comuni, e lo facciamo proponendo ai nostri interlocutori politici e istituzionali un confronto sul merito a partire dal riconoscimento dei principi compresi nella Dichiarazione dei Diritti dei Contadini e delle Altra persone che vivono nelle Aree rurali assunta dalle Nazioni Unite nel 2018 e su cui il Governo italiano si astenne.

Al contrario, proponiamo di aprire la discussione e il confronto proprio da quei principi nel convincimento che la Riforma dell’Agricoltura di cui abbiamo sempre più bisogno non sia una questione “tecnica”; serve ripartire dai diritti per ridisegnare il futuro dell’agricoltura italiana: i diritti del lavoro per i salariati, quelli al reddito per le imprese produttive, quelli al cibo, al prezzo ed alla sicurezza alimentare per tutti i cittadini e quelli delle comunità ad avere un territorio tutelato ed al rispetto dei beni comuni.